LA CORTE DI APPELLO

    Riunita in Camera di consiglio, ha emesso la seguente ordinanza.
    Con sentenza deliberata dal giudice per l'udienza preliminare del
Tribunale  di  Palermo  il  17 novembre 2004, Nasca Giovanni e' stato
assolto  dal  reato  di  lesioni  (art. 582  cod. pen.) contestatogli
perche' il fatto non costituisce reato.
    Avverso  la  sentenza  anzidetta, e' stato proposto appello dalla
difesa  della  parte  civile  costituita,  Bruno Pietro, per chiedere
l'affermazione   della  responsabilita'  civile  dell'imputato  e  la
condanna del medesimo a risarcire il danno.
    Dopo  la proposizione dell'appello, e' entrata in vigore la legge
26  febbraio  2006,  n.   46 recante modifiche ai codice di procedura
penale   in   materia   di   inappellabilita'   delle   sentenze   di
proscioglimento.
    Osserva  la  Corte  che  l'art.  576  cod.  proc. pen., nella sua
attuale  formulazione,  prevede  che  «la  parte civile puo' proporre
impugnazione  contro i capi della sentenza di condanna che riguardano
l'azione  civile  e,  ai  soli  effetti della responsabilita' civile,
contro a sentenza di proscioglimento pronunziata nel giudizio».
    Tale  norma  collocata  nel  libro  riguardante  le  disposizioni
generali in materia di impugnazioni, non indica lo specifico mezzo di
impugnazione,  essendo stato soppresso il richiamo al «mezzo previsto
per il pubblico ministero» che, nella soppressa normativa, costituiva
il  solo  elemento  testuale  che  legittimava  l'appello della parte
civile.
    Sia  in  virtu'  delle  disposizioni contenute nell'art. 12 delle
disposizioni  sulla  legge  in  generale,  le quali non consentono la
interpretazione  «creativa»  quand'anche  il risultato dovesse essere
conforme  alle  intenzioni  del  legislatore,  sia, e soprattutto, in
forza  di  quanto  previsto  dall'art. 568 cod. proc. pen., il quale,
fissando  in  via  generale il principio della tassativita' del mezzo
d'impugnazione,  stabilisce  che  i provvedimenti del giudice possono
essere  impugnati  solo  dai  soggetti  e  con  i mezzi espressamente
indicati,  si  deve  escludere  che  la  parte  civile possa proporre
appello avverso la sentenza che abbia prosciolto l'imputato.
    Inoltre,  la norma transitoria contenuta nell'art. 10 della legge
n. 46  del  2006  (che e' quella che viene in considerazione nel caso
concreto)  prevede  l'applicabilita'  della nuova disciplina anche ai
processi  in  corso,  con l'evidente effetto di rendere inammissibili
gli  appelli proposti dalla parte civile prima dell'entrata in vigore
della  legge modificatrice, risultando inibito alla detta parte anche
il  «recupero»  del  ricorso  per  Cassazione  mediante il meccanismo
previsto per l'appello del pubblico ministero.
    Ne   deriva,   ad  avviso  del  Collegio,  una  irragionevole  ed
ingiustificabile  disparita' di trattamento tra pubblico ministero ed
imputato,  da  una  parte, e parte civile dall'altra, con conseguente
violazione  del  principio  di  uguaglianza  di  cui all'art. 3 della
Costituzione e di quello dello svolgimento del processo in condizioni
di parita', sancito dall'art. 111 della Carta fondamentale.
    Vulnerato e' anche il principio dell'affidamento.
    Se  il  danneggiato  si  puo' costituire parte civile e sfruttare
tutte  le  potenzialita' che, al momento della costituzione, la legge
mette  a  lui  a  disposizione,  il  sistema  crea  una aspettativa -
valevole  anche nella materia processuale, come affermato dalla Corte
costituzionale  con  la  sentenza  n. 525/2000 - a percorrere fino in
fondo  la  via prescelta, anche allestendo reazioni capaci di elidere
gli eventuali pregiudizi derivanti da taluni provvedimenti.
    Pertanto, una volta ammessa per il danneggiato la possibilita' di
divenire  parte  civile, pur nel contesto di scelte che, in un modo o
nell'altro,    possono    ritornare   di   svantaggio,   sancire   la
inappellabilita'  delle sentenze di proscioglimento appare una scelta
che  si presta ad obiezioni di irragionevolezza sul livello minimo di
garanzia  della  pretesa  civilistica  per  i  danni  derivanti dalla
commissione del reato.
    Sembra,  pertanto, chiaramente incontestabile la irragionevolezza
di  una  normativa  che,  privandola  di  ogni potere d'impugnazione,
costringe  la  parte  civile  a subire l'efficacia di giudicato della
sentenza  penale,  pur  avendo  scelto di innestare la sua pretesa di
essere  risarcita  in  un  contesto  processuale  che le conferiva il
potere di appello.
    Senza  considerare,  inoltre, che la nuova disciplina transitoria
introduce  anche  una disparita' di trattamento tra chi ha intrapreso
l'azione  civile  nella  sede  propria  e  chi ha, invece, optato per
l'esercizio dell'azione civile nel processo penale, essendo inibito a
quest'ultimo   -   e   non  per  sua  determinazione  -  il  diritto,
riconosciuto  invece al secondo, di chiedere, con l'appello, un nuovo
giudizio di merito che ribalti la pronunzia a lui sfavorevole.
    Anche  sotto tale profilo, dunque, la norma intertemporale sembra
essere  non  coerente  con  i  principi  costituzionali sanciti dagli
articoli sopra indicati.
    La  questione  e' rilevante nel presente procedimento perche' dal
suo  accoglimento  dipende  la  tutela  giurisdizionale della pretesa
risarcitoria  della  parte  civile,  in  sede  di  applicazione della
disciplina  transitoria della legge n. 46 del 2006, quanto meno nelle
stesse forme previste per il pubblico ministero.